Tra clima e transizione equa: intervista a Stefania Barca

Ricercatrice senior all’Università di Santiago de Compostela, e visiting professor in Climate Change Leadership all’Universitá di Uppsala; si occupa di storia dell’ambiente ed ecologia politica con attenzione particolare al rapporto tra politiche ambientali e del lavoro. Tra le sue pubblicazioni segnaliamo la Introduzione alla storia dell’ambiente (Carocci 2004), e Forces of Reproduction. Notes for a counter-hegemonic Anthropocene (Cambridge University Press 2020). Coordina un gruppo di ricerca sulla transizione giusta nell’ambito di un progetto Horizon 2020 sull’economia circolare.

A un’estate non semplice segue un autunno molto caldo per il clima.
L’emergenza climatica, però, è molto di più di una questione scientifica e come affrontarla è una scelta politica che non può essere neutra. In questo periodo si parla molto di Transizione Ecologica, ma quest’espressione rischia di essere opaca e vuota, rappresentando l’ennesimo “vestito nuovo a problemi vecchi”, senza davvero proporre un nuovo modo di pensare e agire.

Transizione Ecologica deriva dal latino “transire” – passare – , “processo trasformativo coinvolgente e sostanziale” non una risistemazione o un aggiustamento in cui i soggetti sociali rimangono gli stessi (o cambia solo il loro aspetto esteriore/stato fisico) e si limitano a passare da un punto ad un altro dal presente al futuro.

Chiediamo quindi alla nostra ospite:

In uno dei suoi articoli pubblicati su DinamoPress dice “la strategia politica della Transizione Giusta è probabilmente una delle più innovative e promettenti proposte politiche avanzate finora per affrontare il cambiamento climatico, in quanto essa mira a superare la storica opposizione tra politiche ambientali e politiche del lavoro, al fine di rendere la transizione ecologica un processo socialmente giusto”. Potrebbe aiutarci a dare una definizione di “transizione giusta” e a capire in che modo la transizione ecologica possa superare il dualismo lavoro-protezione dell’ambiente?

Vorrei iniziare dal considerare il nesso tra le politiche climatiche e le politiche sociali, in particolare le politiche di genere, che a mio parere si trova nel tema del valore. Quale valore dare ai servizi ecosistemici? È il caso di attribuire un valore di mercato? Si tratta di un tipo di domande che riguarda non solo l’ambiente, ma anche la sfera delle politiche di genere, in particolare il settore della cura del lavoro domestico. C’è un dibattito che va avanti da decenni su questo: c’è infatti chi la vede come un’opportunità di integrazione e trasformazione del mercato stesso e c’è invece chi vede in questa incorporazione un problema, un rischio di mercificazione di qualcosa che non può diventare merce di scambio.

Per rispondere alla domanda sulla Transizione Giusta, invece, direi che la TG è un termine controverso e che ha una lunga storia, che assume diversi significati a seconda di chi ne parla e da quale prospettiva. Originariamente, l’idea e il concetto che la transizione post-carbonio debba essere socialmente accettabile dai settori che ne verrebbero maggiormente colpiti (per esempio le fasce occupazionali delle industrie a più alto impatto inquinante, del settore trasporti e minerario e della produzione energia), si rifaceva al fatto che la prospettiva di questi settori sulla transizione dovesse essere tenuto in considerazione.

Il movimento sindacale a livello internazionale si è occupato di questo ormai da decenni: l’International Trade Unions Confederation che collabora con l’ILO ha elaborato una piattaforma di proposte su che cosa debba significare la TG dal punto di vista dei sindacati e del lavoro. I governi devono infatti responsabilizzarsi e non lasciare al mercato la gestione della transizione, prendendosi carico della perdita di posti di lavoro nel fossile, la creazione di alternative di impiego verde e l’offerta di formazione per il personale di quelle industrie che verrebbero escluse dal mercato.

Allo stesso tempo, questo termine è stato appropriato da una serie di altri movimenti come i movimenti per la giustizia climatica, quelli che si battono per le frontline communities (comunità che sono già sul fronte nel gestire le conseguenze del cambiamento climatico), i movimenti indigeni e quelli antirazzisti. Quello che tutti questi movimenti hanno in comune è che si battono per qualcosa di diverso dalla battaglia climatica a cui siamo abituat*, cioè quello delle classi medio-urbane con classi di reddito e occupazione più alte, ovvero quelle che non dipendono economicamente dal lavoro industriale, nelle infrastrutture, nei trasporti e nei settori più inquinanti.

A lungo c’è stato uno scollamento tra istanze ambientaliste e istanze della working class. Invece, il termine TG esprime le posizioni di quei settori della società che pur non essendo classe media e non avendo occupazione nel terziario o nel lavoro intellettuale esprimono delle loro istanze sulla transizione climatica, proprio perché provenienti dalle comunità più colpite dall’inquinamento e dai rischi legati al cambiamento climatico.

Un’altra dimensione della TG è quella istituzionale, utilizzata nel Green Deal Europeo e anche dal governo italiano. Qui ci si pone il problema degli investimenti nella creazione di posti di lavoro alternativi a quelli che si presuppone di perdere. Questa visione però, è molto concentrata sul settore privato, visto come trainante.

Ricollegandoci alla prima domanda e recuperando alcuni dati (in particolare un documento dell’ILO del 2015, “Gender equality and green jobs”), i cosiddetti nuovi lavori green non possono essere considerati la soluzione unica a una transizione giusta, perché vedono hanno un’impostazione di tipo tecnico manageriale che vedono prevalentemente un’occupazione maschile. Questo approccio esclusivo rischia di creare insomma nuove disuguaglianze. Come può una prospettiva di genere permettere di allargare lo sguardo?

Bella domanda! É una domanda condivisa a livello globale da un certo numero di gruppi, movimenti e organizzazioni femministe, tanto è vero che è stato creato il Green New Deal femminista, a cui fanno riferimento una quarantina di ONG a livello internazionale, che si interroga proprio su questo.
Partiamo dal presupposto che dal mio punto di vista il Green New Deal e la transizione giusta sono praticamente sinonimi. Negli Stati Uniti questa questione è portata avanti dai socialisti democratici con la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, mentre in Europa è stata creata una piattaforma promossa dal movimento DM25 che dal basso e grazie all’aiuto di organizzazioni e ricercatrici e ricercatori si interroga e propone soluzioni su questo tema. Anche io stessa ho contribuito a questo documento che si chiama “Un Blueprint per una Giusta Transizione in Europa” che vuole essere un po’ l’alternativa al Green Deal della Commissione Europea. In quest’ultimo non c’è un gran che di nuovo, è una riproposizione di un approccio fortemente legato al mercato alla questione della transizione ecologica. Invece il Green New Deal di ispirazione socialista ha un approccio completamente diverso che è quello dell’espansione della spesa pubblica, della necessità di una forte responsabilizzazione del pubblico e del ripensare la riorganizzazione dell’economia riequilibrando il chi paga cosa. È insomma un’opportunità di trasformazione della società in senso ampio, capace di affrontare le disuguaglianze eliminandole alla radice e mettendo in discussione le concezioni neoclassiche dell’economia.
Una delle proposte politiche contenute nel Blueprint è quella della istituzione di un reddito di cura, che compensi non soltanto il lavoro domestico non pagato, ma anche quello svolto volontariamente a livello comunitario e territoriale. Questa misura avrebbe l’effetto di sostenere il reddito garantendo una piú equa e ampia disponibilitá di cura, al tempo stesso abbattendo le emissioni pro-capite. Come l’economia politica femminista ci ha insegnato, il settore della cura non viene riconosciuto nella contabilitá del PIL: non si tratta solo di cura in senso materiale, ma anche di cura delle relazioni, educazione, far crescere cittadine e cittadini. Paradossalmente consideriamo lavoro e diamo valore a ciò che produce disastri ambientali ma non a ciò che produce vita, cittadinanza e ciò di cui la società ha bisogno. Una transizione giusta lavora per superare questa contraddizione.

Qual è, secondo lei, il più grande “errore comunicativo” che ad oggi impedisce una realizzazione della transizione ecologica? Cosa si dovrebbe comunicare meglio ai cittadini e alle cittadine?

Per me c’è un errore comunicativo che va al di là della transizione ecologica e della crisi climatica. Riguarda l’uso del pronome “noi” – umanità, e l’idea che siamo tutt* ugualmente responsabili e minacciati dalla crisi climatica. Non è assolutamente così, non è stato così storicamente. La crisi climatica è il risultato di un percorso nato a partire dall’espansione coloniale che ha portato un certo modello di sviluppo a diventare dominante, ed è stata costruita sul genocidio, sulla distruzione di ecosistemi e popoli, sull’omogeneizzazione del mondo e sull’ espansione del modello di modernità e civiltà di tipo capitalistico e occidentale, senza lasciare posto ad altre prospettive, marginalizzando e facendo pagare in modo sproporzionato il prezzo della crisi. Non si tratta di un problema secondario: se prendiamo in considerazione il tema del debito climatico vediamo ad esempio che la questione non è tanto sul fatto che l’Occidente dia o meno sostegni ai paesi poveri. La questione è piuttosto che l’Occidente dovrebbe ripagare un debito nei confronti del mondo colonizzato a cui sono state estratte risorse e a cui oggi si impongono effetti catastrofici. Di questo debito non si vuole parlare, è un tabù – si preferisce usare il linguaggio degli aiuti che è un linguaggio estremamente problematico e ambiguo.

Director of Programs, Events, and Research. Equality advocate and beanie knitting queen