Clima, tassazione e giustizia: intervista ad Andrea Molocchi

Intervista ad Andrea Molocchi – economista, esperto di fiscalità ambientale e valutazione delle esternalità.

*le opinioni espresse nell’intervista sono personali e non rappresentano né possono essere attribuite all’organizzazione di cui è dipendente.

A un’estate non semplice segue un autunno molto caldo per il clima. L’emergenza climatica, però, è molto di più di una questione scientifica e come affrontarla è una scelta politica che non può essere neutra. In questo periodo si parla molto di Transizione Ecologica, ma quest’espressione rischia di essere opaca e vuota, rappresentando l’ennesimo “vestito nuovo a problemi vecchi”, senza davvero presentare un nuovo modo di pensare e agire.

Transizione Ecologica deriva dal latino “transire” – passare – , “processo trasformativo coinvolgente e sostanziale” non una risistemazione o un aggiustamento in cui i soggetti sociali rimangono gli stessi (o cambia solo il loro aspetto esteriore/stato fisico) e si limitano a passare da un punto ad un altro dal presente al futuro.

Chiediamo quindi al nostro ospite:

Essendosi occupato a lungo di “fiscalità ambientale”, le chiederemmo di chiarire a noi e ai lettori alcune questioni fondamentali: chi paga per le alte esternalità negative? Quanto paga? È giusto che sia così? Potrebbe spiegarci di cosa si tratta e come potrebbe essere rivisto il sistema fiscale in modo da risultare più equo e sostenibile?

Quando si parla di tassazione generalmente lo si fa generalmente con una connotazione negativa: quello che siamo costrette e costretti a pagare, quello che dobbiamo sborsare e la difficoltà che abbiamo nel farlo. Questa connotazione negativa riguarda poi il problema di fondo della tassazione, che è la capacità contributiva, che è un problema di disuguaglianza economica. Sulle tasse ambientali, però, il punto è un altro: non si dovrebbero pagare in base al reddito ma in base a quanto si inquina. Le tasse ambientali contengono due dimensioni di giustizia sociale di cui non si parla mai ma che dovrebbero essere alla base di una fiscalità più equa. La prima dimensione riguarda le esternalità ambientali: a quanto ammontano i costi sociali dell’inquinamento? Quali sono i soggetti più esposti? Ovviamente i poveri sono più esposti, un primo aspetto problematico. L’altra dimensione riguarda invece la relazione tra la responsabilità per queste esternalità e il sistema di tassazione: chi inquina, paga le tasse ambientali in maniera proporzionale? Oppure a pagare queste esternalità sono i meno responsabili ma più facili da tassare?

Nel mio percorso di ricerca ho cercato di dare risposta concreta ad almeno alcune di queste domande. Iniziamo dalle esternalità ambientali, ovvero i costi sociali dovuti ai fenomeni di inquinamento: si tratta del valore monetario degli effetti sanitari e degli impatti per gli ecosistemi dovuti ad attività di imprese e famiglie. Nelle esternalità, la valutazione monetaria viene effettuata con le tecniche dell’economia ambientale che, seppur parziali perché non in grado di includere alcune questioni sociali fondamentali, sono ad oggi la misura più utilizzata. Queste tecniche permettono di ottenere una visione complessiva degli effetti dell’inquinamento grazie all’aggregazione dei costi associati a batterie di indicatori d’impatto fisico-chimici.
Il problema, ad oggi, è che gli enti statistici che dovrebbero calcolare questi costi lo fanno in modo parziale e poco efficace.

In base ai risultati di uno studio per il Senato che ho realizzato nel 2017, i costi esterni associati alle emissioni in atmosfera ammontano ad almeno 50 miliardi l’anno nel loro complesso, una cifra non trascurabile. L’industria è responsabile di circa 13,9 miliardi di euro mentre l’agricoltura di circa 10,9. Inoltre, i costi esterni del riscaldamento delle famiglie superano quelli dei trasporti, diversamente da quel che si credeva in passato.

Riguardo alla seconda dimensione a cui accennavo prima (chi inquina, paga?), bisogna innanzitutto capire a quanto ammontano le tasse ambientali e chi le paga oggi. L’ISTAT fa un monitoraggio che include le tasse ambientali in senso lato, soprattutto quelle sui prodotti energetici. Brevemente, secondo l’ISTAT la parte più consistente delle tasse ambientali (circa 30 miliardi di euro) sono le accise sui carburanti e i combustibili, mentre in seconda battuta troviamo le accise e gli oneri di sistema che paghiamo in bolletta elettrica (circa 15 miliardi). L’ ISTAT include anche il bollo auto (6 miliardi). L’unica vera tassa ambientale, dove per vera tassa ambientale intendo una tassa che secondo il principio di giustizia ambientale colpisce l’inquinatore sulla base dell’ammontare dell’inquinamento, sono i permessi di emissione di CO2. Occorre chiarire che questi incidono solo per l’1% sulle tasse ambientali totali.

Se torniamo alla domanda “chi inquina, paga?” è evidente un forte problema di ingiustizia. In effetti, le famiglie pagano il 70% in più rispetto ai costi esterni ambientali di propria responsabilità (principalmente i costi esterni del riscaldamento e della mobilità), mentre le imprese pagano molto meno rispetto ai costi che generano. Il settore agricolo per esempio paga il 93% in meno dei costi che genera. Chiaramente, questa è questione di iniquità distributiva nella fiscalità ambientale. Ci sono settori che sono liberi di inquinare: il trasporto marittimo paga solo l’1% dei suoi costi esterni, mentre il trasporto aereo il 6%. Ci sono poi settori che pagano molto di più di quello che dovrebbero in termini di imposte ambientali.
Ora, l’ingiustizia che si riscontra nel mancato rispetto del principio chi inquina paga è ulteriormente aggravata dal fatto che alcuni settori che sono responsabili di elevati costi esterni, non solo non pagano le tasse ambientali in proporzione ma addirittura ricevono sussidi dannosi per l’ambiente. Questa è, di fatto, la più grande contraddizione, che dovrebbe costituire il punto di partenza di una riforma della fiscalità in chiave ambientale.
Nell’ottica di questa riforma (cosa che il Green Deal Europeo auspica avanzando anche delle concrete proposte legislative), si deve necessariamente partire da una valutazione delle esternalità ambientali. La riforma che auspico, quindi, dovrebbe ispirarsi ai tre principi di giustizia ambientale che ho menzionato fino a qui: trasparenza sui costi esterni ambientali, chi inquina paga e sostegno alle famiglie più vulnerabili.


Riprendendo questi tre principi che hai citato ma spostando il focus, vogliamo proporti una seconda domanda sulla questione energetica. La Commissione Europea si è prefissata, entro il 2030, di avere circa il 70% di fonti rinnovabili sulla rete elettrica, richiedendo agli stati membri enormi sforzi e investimenti. L’obiettivo, oltre che essere strategico dal punto di vista geopolitico, per una maggiore indipendenza, è fondamentale anche per affrontare la crisi climatica che stiamo vivendo. Come si sta muovendo l’Italia in questo senso? Sappiamo anche che alcune forze politiche stanno promuovendo e cercando di facilitare le possibilità di creazione di comunità energetiche. Crede che questi percorsi partecipativi, locali e diffusi possano dare un contributo rilevante alla transizione ecologica?

Il nuovo obiettivo della Commissione Europea è effettivamente molto impegnativo, così come lo era il precedente. L’attuale piano energia-clima dell’Italia aveva previsto di arrivare entro il 2030 al 55% di energia elettrica da fonti rinnovabili. Con il nuovo impegno europeo del Green Deal dovremmo arrivare al 65%-70%. Fondamentalmente, però, non c’è un grande potenziale di ulteriore sviluppo per tutte le forme di rinnovabili, ad esempio per l’idroelettrico e il geotermoelettrico, mentre si vede maggiore potenziale nell’eolico e nel fotovoltaico. In particolare, il fotovoltaico al momento rappresenta la fonte più economica su cui investire. Eppure, dobbiamo considerare che per stare ai numeri, entro il 2030 dovremmo realizzare 50000 megawatt di nuova capacità. Il problema è che 1 megawatt di fotovoltaico richiede 2-3 ettari di terreno. Dove vogliamo realizzare questi impianti? A terra in aree agricole o favoriamo i piccoli impianti sui tetti degli edifici esistenti, le serre, le cave dismesse, anche se ce ne vorrebbero centinaia di migliaia?

Il governo quest’estate ha già preso provvedimenti importanti. Ha approvato uno schema preliminare del decreto di recepimento della direttiva sulle rinnovabili del 2018. Questo decreto contiene novità importanti sulle comunità energetiche rinnovabili: comunità composte da cittadini, piccole-medie imprese e autorità locali che possono ora associarsi per produrre e condividere energia rinnovabile per soddisfare il proprio fabbisogno, cosa che fino a poco tempo fa era impedita. Questo è un grande cambiamento teorico. Sotto la spinta dell’UE si stanno creando le condizioni normative per cui forme partecipate dai cittadini e radicate nel territorio possono dare un contributo importante alla transizione ecologica. Però, i provvedimenti presi quest’estate sembrano un po’ contraddittori e spinti dall’urgenza di spendere soldi dell’Unione Europea, senza però avere una strategia chiara. Per esempio, a luglio è stato approvato il decreto semplificazioni, che non dice nulla sul semplificare le procedure per installare il fotovoltaico nei tetti condominiali, mentre si è preoccupato di semplificare le procedure per realizzare i grandi impianti a terra in aree a destinazione industriale. Questo in parte va bene, ma dall’altra parte è stato tolto il divieto introdotto nel 2012 che impediva l’accesso agli incentivi per gli impianti nelle aree agricole. Da ora in poi si potranno realizzare parchi agro-voltaici, ovvero si potrà accedere agli incentivi per realizzare impianti nelle aree agricole, a condizione di realizzare un sistema di monitoraggio che verifichi la continuità delle produzioni agricole.

Alcuni dubbi però emergono: l’Italia non ha ampia disponibilità di aree scarsamente vegetate o desertiche, come può essere in Arabia Saudita o in Spagna. Al contrario, l’Italia è il paese con maggiore ricchezza in termini di biodiversità, ha un’economia del turismo e dell’export agroalimentare fondata sul valore del paesaggio e sulla qualità dell’ambiente.
Si potrebbe quindi dire che il valore delle componenti ecologiche di un terreno fertile non è 0, e che il suo valore economico non dipende solo dalla possibilità di produrre cibo ed energia. Un terreno fertile esprime valore economico soprattutto attraverso servizi di biodiversità e servizi ecosistemici, cioè servizi che consentono di sostenere l’economia con modalità che fino ad ora non sono state contabilizzate dal PIL ma che hanno un forte peso sulla possibilità stessa di produrre e consumare. Per esempio, un terreno vegetato assorbe CO2, ospita specie animali e vegetali da cui dipende la nostra vita, permette la filtrazione delle acque e l’accumulo di riserve idriche, può assorbire inquinamento atmosferico e mitigare l’erosione naturale dei suoli, inoltre la vegetazione fornisce un servizio di ricreazione naturalista che spesso diamo per scontato.

Il rischio, insomma, è che se si lascia carta bianca ai grandi e facili progetti di fotovoltaico si rischia di vedere migliaia di progetti fotocopia realizzati nei terreni agricoli di tutta Italia, già fortemente compromessi da altri fattori come il consumo di suolo. Se riuscissimo invece ad utilizzare le nostre capacità progettuali per analizzare e classificare il territorio, individuare aree idonee, far esprimere i cittadini e decidere insieme su come e dove realizzare gli impianti, a mobilitare proprietari di superfici già costruite e edifici, potremmo davvero tradurre l’obiettivo delle rinnovabili in un beneficio effettivo per l’Italia.

Qual è, secondo lei, il più grande “errore comunicativo” che ad oggi impedisce una realizzazione della transizione ecologica? Cosa si dovrebbe comunicare meglio ai cittadini e alle cittadine?

Vi ringrazio per questa bella domanda, che mi consente di parlare delle differenze fra transizione ecologica e transizione energetica. Di solito, quando si parla di obiettivi climatici si fa riferimento alla transizione energetica o alla decarbonizzazione, dando per scontato che questo scenario possa prospettare un nuovo equilibrio tra il genere umano e la natura. Io non credo che questo scenario sia veritiero. Un primo errore comunicativo è pensare che si possa tornare entro 30 anni al clima che c’era una volta. Il cambiamento climatico indotto dall’uomo è già in atto. Abbiamo un grosso debito nei confronti dei paesi che si devono ancora sviluppare e nei confronti delle generazioni future. Ma c’è un’altra questione, di carattere più generale, che è compresa nel termine ‘transizione ecologica’ e non nel termine ‘transizione energetica’. La questione principale è l’illusione che la transizione energetica possa risolvere i problemi ambientali di fondo dell’umanità, che sono i limiti del pianeta. Dietro la crescita delle emissioni del carbonio c’è la crescita della popolazione umana e la sempre più rapida trasformazione del suolo e dei sistemi naturali a uso e consumo del genere umano e a danno delle altre specie. Durante l’impero romano la popolazione del mondo era di 170 milioni, siamo cresciuti a 1 miliardo nel 1800 e siamo arrivati a 7 miliardi in due secoli. Secondo diversi studi la progressiva antropizzazione del pianeta ha ridotto dell’ 80% la biomassa di tutti i mammiferi selvatici, mentre la biomassa vegetale ha subito una riduzione del 50%. Insomma, la transizione ecologica non finirà nel 2050 ma richiederà un ripensamento radicale del ruolo del genere umano sulla terra. Diamo troppo spesso per scontato che solo il genere umano abbia cittadinanza sulla terra, mentre attraverso lo studio e l’osservazione dei processi biologici ed evolutivi delle altre forme di vita dobbiamo ancora maturare una piena consapevolezza del fatto che non avremo futuro se non saremo in grado di garantire un futuro anche alle altre forme di vita che ci hanno preceduto sul pianeta terra.

Director of Programs, Events, and Research. Equality advocate and beanie knitting queen